“Così sei nato tu”: se e come comunicare la PMA ai propri figli

Ognuno ha una favola dentro, che non riesce a leggere da solo.

Ha bisogno di qualcuno che, con la meraviglia e l’incanto negli occhi, la legga e gliela racconti”

 (P. Neruda)

Sono trascorsi 43 anni da quando la notizia della nascita di Louise Brown riempì le prime pagine dei giornali di tutto il mondo: era venuta alla luce, in Inghilterra, la primissima bambina “concepita in provetta”, come si usava dire all’epoca. Oggi si parla di PMA, Procreazione Medicalmente Assistita, definibile come “l’insieme delle tecniche utilizzate per aiutare il concepimento in tutte le coppie, nei casi in cui il concepimento spontaneo è impossibile o estremamente remoto e nei casi in cui altri interventi farmacologici e/o chirurgici siano inadeguati[1]“. Fu un tema caldo all’epoca della nascita di Louise Brown, tra chi gridava al “miracolo della scienza” e chi all’ “eresia contro natura”, e continua ad esserlo anche nel 2021, in particolare per tutte le implicazioni etiche e morali che vi gravitano attorno e che dividono il pensiero e il sentire della società.

Parlare di PMA si traduce spesso in un dibattito ideologico, talvolta dimenticando che dietro ai tecnicismi medici si dirama un mondo fatto persone e di storie di vita, narrazioni non di rado silenziose o taciute per vergogna, timore del giudizio o perché le ferite sono troppo profonde per essere condivise. La letteratura scientifica psicologica degli ultimi decenni ha indagato molto bene  i vissuti più frequenti delle coppie e delle singole persone che sono ricorse alla PMA nella speranza di realizzare il proprio desiderio di genitorialità. Solo di più recente interesse, tuttavia, sono molti aspetti relativi al “dopo”, in particolare quando tale desiderio si è concretizzato con l’arrivo di un bimbo/a. Oltre alle “normali” difficoltà quotidiane che comporta l’essere padre o madre, un interrogativo grande che spesso questi genitori si pongono è se sia giusto o meno rivelare ai propri figli come sono stati concepiti. Tale difficoltà sembra aumentare nel momento in cui si è fatto ricorso ad una fecondazione eterologa, ossia tramite gameti di donatori. Pare che per i genitori sia complesso soprattutto capire “come” parlarne ai figli, trovare le parole giuste per raccontare “così sei nato tu”, complessità non facilitata dal “timore di essere rifiutati o di non essere più riconosciuti come genitori”[2].

Di seguito, due articoli psicologici che vogliono fungere da spunti di riflessione per approfondire l’argomento; riportiamo inoltre l’interessante e delicato punto di vista di Cristina Realini, filosofa e pedagogista, presentato nel 2016 al convegno “Alla ricerca di un figlio. L’esperienza delle donne nella procreazione assistita”.

https://www.stateofmind.it/2015/10/fecondazione-assistita-comunicarlo-bambini/

https://www.melograno.org/wp-content/uploads/2016/12/5-Cristina-Realini.pdf


[1] Definizione di PMA da www.salute.gov.it

[2] Kirstin Mac Dougall, MFAa, Gay Becker, Ph.D.a, Joanna E. Scheib, Ph.D.b, and Robert D. Nachtigall, M.D, Strategies for disclosure: How parents approach telling their children that they were conceived with donor gametes. 2007, fertility and sterility, 87(3)