Il mito della felicità

In un’epoca in cui la felicità sembra più un trofeo da conquistare e mostrare, veicolato in massima portata dai social media, ci si interroga su come questa costante ricerca della felicità possa farneperdere di vista l’essenza stessa. Osservando quanto viene condiviso, tra video e foto, si viene costantemente bombardati da immagini che tendono a diffondere un ideale di perfezione, associato alla felicità, il quale crea un grosso divario con la vita che viviamo tutti i giorni. Questa rappresentazione della società può portare le persone a vivere nella costante spinta a fare del loro meglio per cambiare la loro posizione, forti del pensiero che tutto dipende da loro e sono artefici della loro felicità. “L’allenamento della resilienza” (B.C. Han, 2021) viene visto come il mantra che porta a modellare l’essere umano e renderlo un soggetto da prestazione che ambisce ad essere sempre felice e distante dal dolore. 

La felicità viene definita come lo stato d’animo di chi è sereno, non turbato da dolori o preoccupazioni e gode di questo suo stato. Viene ricondotta ad una delle cinque emozioni primarie, la gioia che viene definita come un’emozione intensa e piacevole che si prova quando un fine viene raggiunto o un desiderio viene esaudito. Entro tale visione della felicità, chi vive una vita alla ricerca costante di tale stato, dovrebbe partire dal presupposto di vivere una vita senza dolori, perplessità, dubbi e turbamenti (condizione non realistica!). L’altra faccia della medaglia presuppone che la presenza di anche solo un motivo per cui provare dolore o preoccupazione di fatto annulli la possibilità di poter vivere lo stato di felicità. Una società basata sulla “cultura della compiacenza” che considera la felicità come una condizione stabile da raggiungere pone in fallo il concetto stesso, non cogliendone la transitorietà dello stato d’animo, della situazione e dei momenti felici. Si assiste in tal senso alla reificazione della felicità che viene così considerata la somma dei sentimenti positivi che garantiscono una prestazione migliore e sono alla base del raggiungimento di uno stato migliore. Inoltre, questa reificazione porta alla convinzione che determinati oggetti possano rendere felici e non riuscire a possederli genera un sentimento di insoddisfazione e non partecipazione alla felicità collettiva di apparenza.

Fin dai tempi più antichi i filosofi si sono interpellati sul ruolo che la felicità ha per gli esseri umani, cogliendo fin da subito l’importanza di tale stato d’animo nella vita di tutti i giorni. Nietzsche definisce la felicità in parallelo all’infelicità considerandole “due sorelle” che crescono insieme o diminuiscono insieme, ma non possono esistere l’una senza l’altra. Senza prendere come legge quanto viene posto dal filosofo, serve considerare il fatto che attribuisce alla felicità uno stato momentaneo e alternato con momenti di infelicità. 

Una società che spinge gli individui a dare costantemente prestazioni migliori per raggiungere uno stato di felicità, spinge le persone a non contemplare, e dunque non accettare, un fallimento. Il dolore viene considerato la negatività per eccellenza che allontana dalla visione positiva e dunque dall’ideale per cui tutto è possibile se lo si desidera ardentemente. Questo mantra della crescita personale porta a credere che tutto sia raggiungibile e attribuisce alla persona tutta la responsabilità della riuscita e, di conseguenza, dell’infelicità che ne deriva dalla non riuscita.  Questo approccio alle sfide, ai traguardi da raggiungere rende l’individuo incapace di accettare l’insuccesso e la frustrazione che ne deriva. Questo può far esperire all’individuo sentimenti di impotenza, di non auto-efficacia con una conseguente chiusura rispetto alla visione della sua vita attuale come “non modificabile” e dunque “non felice”. Riappropriarsi della presenza dell’insuccesso e del dolore nelle vita di ogni individuo consente di rompere quell’immagine patinata della felicità rendendola più reale. Ciò che consente agli individui di ottenere un risultato sarà distinguere tra ciò che possono realmente realizzare e ciò che in quel momento non è possibile: in questo modo sarà possibile lavorare su ciò che davvero si può ottenere per riuscire ad arrivare al traguardo desiderato. Riappropriarsi della visione della felicità come un momento da vivere e non da raggiungere consente di non lasciarsi sfuggire gli attimi felici che possono presentarsi durante le giornate e diminuire il senso di impotenza derivante dal non raggiungimento degli standard di felicità posti dalla società. 

Si lascia in link di una conferenza in cui viene approfondito il tema “società e felicità”:

Bibliografia: 

B.C. Han (2021), La società senza dolore, Einaudi, Torino