Violenza di genere: una rivoluzione linguistica per una rivoluzione culturale

Siamo a Kyoto (Giappone), allo Yamaichi Concert Hall: un’artista elegantemente vestita si siede a terra in uno spazio espositivo davanti a delle forbici, invitando esplicitamente il pubblico ad avvicinarsi e tagliare dei piccoli pezzi del suo abito. L’artista resta immobile, in silenzio, sguardo fisso davanti a sé…e aspetta. Dopo alcuni minuti di esitazione, qualcuno inizia a farsi avanti fino a che, pezzo dopo pezzo, l’artista rimane seminuda.

Siamo a metà degli anni Sessanta e questa performance, “Cut Piece”, verrà ripetuta più volte nel corso del tempo (fino ai primi anni Duemila) e in varie parti del mondo, con un significato di fondo che muterà nel tempo in sintonia con la maturazione e l’evoluzione dell’artista. Parliamo di Yoko Ono, nota al grande pubblico più per essere stata la compagna di John Lennon che per la sua personale carriera artistica.

L’immagine della Ono inginocchiata al suolo con i vestiti tagliati è fortemente evocativa di una condizione femminile che si è protratta per secoli, quella di una donna inerme, un oggetto che può essere spogliato dei diritti e che sopporta, in silenzio, molestie e umiliazioni. 

È un’immagine fortemente evocativa anche oggi, nel 2021, specie se la ricolleghiamo ad una ricorrenza che avrà luogo fra pochi giorni. Il 25 novembre ricorre, infatti, la giornata internazionale contro la violenza sulle donne, tema di cui – fortunatamente – oggi si parla molto di più rispetto all’epoca della prima esibizione di “Cut Piece”.

Se allora l’esigenza era quella di “far emergere” questa problematica importante, dandone visibilità con tutti i linguaggi possibili (tra cui, appunto, anche quello artistico), negli ultimi anni si sta facendo largo una nuova sensibilità che ha spostato il focus sul “come” se ne parla e se dovrebbe parlare. Tra i vari studi, portiamo ad esempio una recentissima indagine che ha analizzato sotto una prospettiva socio-linguistica numerosi articoli mediatici e sentenze del tribunale, da cui emerge come il discorso pubblico sembra essere ancora fortemente ancorato ad immagini stereotipate e discriminanti (Saccà F. et al.,2021). 

Parafrasando Geertz , gli esseri umani sono come animali sospesi nella ragnatela di significati che essi stessi hanno tessuto, e la cultura è questa ragnatela: la cultura è comunicazione, un prodotto dell’interazione umana. Parlare della violenza di genere in un modo piuttosto che in un altro non è quindi un semplice esercizio di retorica, ma molto di più: contiene in sé quella che Berger e Luckmann definirebbero la “costruzione della realtà”, poiché “[…] il linguaggio segna le coordinate della mia vita nella società e riempie quella vita di oggetti significativi”. 

Per una “rivoluzione culturale”, che influenzi di conseguenza anche il modo di sentire questa tematica da parte di tutti, è indispensabile portare avanti anche una rivoluzione legata alle parole e alle modalità con cui la si “parla”, a tutti i livelli. 

Di seguito riportiamo alcuni link per approfondire l’argomento, tra cui l’indagine precedentemente citata che è stata raccolta in un volume dal titolo “Stereotipo e pregiudizio. La rappresentazione giuridica e mediatica della violenza di genere”, disponibile in open access per il download sul sito dell’editore. Sempre sul tema, volendo passare però attraverso una forma di comunicazione differente ma emotivamente efficace e coinvolgente tanto quanto l’immagine in apertura, concludiamo segnalando il video del monologo dell’attrice Paola Cortellesi in occasione delle premiazioni “David di Donatello 2018”.

Link:

https://www.cddonna.it/wp-content/uploads/2019/11/Silvia-Bonacini-.pdf

https://ojs.francoangeli.it/_omp/index.php/oa/catalog/book/661